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Le Mille e Una Notte Storia del Facchino di Bagdad.

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LE MILLE E UNA NOTTE - STORIA DEL FACCHINO DI BAGDAD

STORIA DELL'INVIDIOSO E DELL'INVIDIATO

In una grande città abitavano due uomini. L'uno nutriva per l'altro un'invidia tale, che l'invidiato risolvette di cambiar casa e di allontanarsi. Infatti era persuaso che l'unico motivo di quell'odio fosse la vicinanza continua, dal momento che lui aveva sempre cercato di essere gentile, senza poter far cessare l'animosità. Vendette dunque la casa e col poco che aveva andò a comprare un appezzamento di terra a una mezza lega dalla capitale. Aveva una casa molto comoda, un bel giardino e un bel cortile nel quale c'era una profonda cisterna di cui nessuno si serviva mai. Il buon uomo, dopo aver fatto tale acquisto, vestì l'abito di monaco, per condurre una vita più ritirata, e fece fare nella casa molte celle, dove in poco tempo riunì una comunità di monaci. La sua virtù lo fece conoscere subito e non mancò di attirare moltissima gente, tanto del popolo quanto della nobiltà della città, e ognuno l'onorava e stimava grandemente. Da lontano veniva gente a raccomandarsi alle sue preghiere, e tutti quelli che si ritiravano presso di lui magnificavano le benedizioni che il cielo prodigava loro per l'intercessione della sua preghiera. Essendosi la sua fama sparsa nella città, l'invidioso ne provò vivo dolore, e abbandonò la sua casa e gli affari col proposito di andarlo a rovinare. Per questo si recò nel convento del monaco, e questi, riconoscendo il suo antico vicino, lo ricevette con tutti i segni dell'amicizia. L'invidioso gli disse che era venuto per comunicargli una importante faccenda, per la quale doveva parlargli in privato, e aggiunse: "Perché nessuno ci ascolti, andiamo nel cortile, e poiché la notte si avvicina, comandate ai vostri monaci di ritirarsi nelle loro celle". Il capo dei monaci lo accontentò. Quando l'invidioso si vide solo col buon uomo, cominciò a raccontargli ciò che a lui piacque, passeggiando l'uno a fianco dell'altro, finché, trovandosi sulla sponda della cisterna, lo spinse dentro, senza che nessuno fosse testimone di un'azione così iniqua. Fatto ciò, si allontanò subito e, raggiunta la porta, uscì senza essere veduto, e tornò a casa, lieto del viaggio e persuaso che l'oggetto della sua invidia fosse finalmente morto. Ma s'ingannava. La vecchia cisterna era abitata da fate e da geni, i quali furono lesti a soccorrere il capo dei monaci. Lo sorressero, in modo che non si fece alcun male nella caduta. Egli si rese conto che doveva esserci qualche cosa di straordinario, ma non vedeva né sentiva nulla. Però, a un tratto, udì una voce che sussurrava: "Sapete chi è l'uomo cui rendiamo questo favore?".

Ed altre voci avendo risposto negativamente, la prima riprese: "Ve lo dirò io. Quest'uomo, per carità, ha abbandonato la città natìa ed è venuto a stabilirsi qui, con la speranza di guarire un suo vicino dall'invidia che gli portava. Egli si acquistò la stima generale, e l'invidioso, non potendolo sopportare, venne qui per farlo morire. Vi sarebbe riuscito, se noi non avessimo soccorso questo buon uomo, la cui fama è così grande che il sultano, che abita nella città vicina, deve venire domani a visitarlo per raccomandare la principessa sua figlia alle preghiere di lui". Un'altra voce domandò allora che bisogno avesse la principessa della preghiera del monaco. "Non sapete dunque che ella è posseduta dal genio Maimùm figlio di Dimdìm, che è innamorato di lei? Ma io so come questo buon monaco potrebbe guarirla: la cosa è facilissima e ve la dirò. Nel suo convento c'è un gatto nero, che ha una macchia bianca all'estremità della coda, grande quasi come una moneta d'argento. Non deve far altro che togliere sette peli da questa macchia bianca, bruciarli e profumare con quel profumo la testa della principessa. All'istante sarà guarita e libera da Maimùm figlio di Dimdìm, che non si azzarderà più ad avvicinarsi a lei." Il capo dei monaci non perdette una parola di questa conversazione. Appena venne giorno, quando poté distinguere gli oggetti, scoprì un buco dal quale poté uscire facilmente. I suoi monaci, che lo cercavano ovunque, furono molto contenti di rivederlo. Egli raccontò loro in poche parole la perversità dell'ospite così ben ricevuto il giorno innanzi; poi si ritirò nella sua cella. Il gatto nero, di cui avevano parlato la notte fate e geni, non tardò a venire a fargli le solite carezze. Allora gli strappò sette peli dalla macchia bianca, che aveva sulla coda, e li conservò per servirsene in caso di bisogno. Non era da molto sorto il sole, quando il sultano giunse alla porta del convento. Ordinò alla sua guardia di fermarsi ed entrò con gli ufficiali, che lo accompagnavano. I monaci lo ricevettero con profondo rispetto. Il sultano trasse il loro capo in disparte, dicendogli: "Buon sceicco, forse voi saprete la ragione che mi conduce qui". "Sì, sire", rispose modestamente. "Se non m'inganno, è la malattia della principessa che mi procurò l'alto onore della vostra visita." "Appunto", disse il sultano. "Voi mi ridarete la vita, se, come spero, con le vostre preghiere otterrete la guarigione di mia figlia." "Sire", rispose il buon uomo, "se la vostra maestà vuol farla venire qui, mi lusingo, coll'aiuto e il favore di Dio, di farla tornare in perfetta salute." Il principe, felice, mandò subito a chiamare la figlia, che apparve, col volto coperto da un velo, accompagnata da un numeroso seguito di donne. Il capo dei monaci fece mettere la principessa sotto un braciere e appena ebbe posti i sette peli sui carboni ardenti, il genio Maimùm figlio di Dimdìm, gettò un grido, lasciando libera la principessa. Allora lei alzò il velo che le copriva il volto, per vedere dove fosse: "Dove mi trovo?", chiese. A tali parole il sultano non poté nascondere la sua gioia, abbracciò la figlia, baciò ancora la mano al capo dei monaci e disse agli ufficiali che l'accompagnavano: "A vostro giudizio quale ricompensa merita colui che ha guarito mia figlia?". Risposero tutti che la meritava in isposa. "Lo pensavo anch'io", aggiunse il sultano, "e da questo momento lo faccio mio genero." Poco dopo morì il primo visir, e il sultano scelse il monaco per sostituirlo. Essendo poi morto il sultano senza figli maschi, egli fu eletto e riconosciuto sultano. Il buon uomo, continuò a dire il secondo monaco, essendo salito sul trono di suo suocero, passeggiava un giorno in mezzo alla sua corte, quando tra la folla scorse l'invidioso. Chiamò uno dei visir che l'accompagnavano, e gli disse sottovoce: "Andate e portatemi qui quell'uomo, ma senza spaventarlo". Il visir obbedì, e quando l'invidioso fu alla presenza del sultano, questi gli disse: "Amico, son lieto di vederti", e volgendosi ad un ufficiale disse: "Dategli subito mille monete d'oro del mio tesoro. Inoltre gli si diano venti carichi di mercanzie preziose, del mio magazzino, e una guardia sufficiente lo scorti fino a casa".

Iraq

Dopo aver incaricato l'ufficiale di quella commissione, disse addio all'invidioso, e continuò la sua passeggiata. Quand'ebbi terminato di narrare questa storia al genio, assassino della principessa dell'Isola d'Ebano, dissi: "Oh genio, vedete che il benigno sultano non solo dimenticò che l'invidioso aveva voluto ucciderlo, ma lo trattò anche cortesemente, con tutta la bontà che vi ho detto". Impiegai tutta la mia eloquenza per indurlo ad imitare un esempio così bello, e a perdonarmi; ma non mi fu possibile piegarlo. "Tutto ciò che posso fare per te", mi disse, "è di non toglierti la vita: ma non lusingarti ch'io ti mandi via sano e salvo; voglio almeno farti vedere quanto posso io coi miei incantesimi." A queste parole mi prese con violenza, e portandomi attraverso la volta del palazzo sotterraneo, che si dischiuse per dargli passaggio, mi trasportò così in alto che la terra mi parve una piccola nube bianca. Da tale altezza si scagliò verso la terra con la violenza del fulmine e giunse sulla cima di una montagna. Qui giunto, il genio raccolse un pugno di terra, pronunciò, o piuttosto mormorò, certe parole, che non compresi, e gettando la terra su di me, disse: "Lascia la forma umana e prendi quella di scimmia", e scomparve. Io restai solo, trasformato in scimmia, in un paese sconosciuto, non sapendo se ero vicino o lontano dagli stati del re mio padre. Dall'alto della montagna scesi in una pianura, e, dopo un lunghissimo viaggio, giunsi sulle rive d'un mare, e scorsi, a mezza lega di distanza dalla terra, una nave. Ruppi allora un grosso tronco d'albero, e dopo averlo spinto nell'acqua, vi salii a cavalcioni, con due bastoni nelle mani, come remi. Così vogando, avanzai verso la nave, e, quando fui tanto vicino da essere riconosciuto, i marinai e i passeggeri si radunarono sulla tolda per guardarmi con grande ammirazione. Intanto arrivai a bordo, ed afferrandomi a una corda mi arrampicai sul ponte: ma siccome non potevo parlare, mi trovai in un terribile imbroglio. Infatti il pericolo che corsi allora non fu meno grande di quello che avevo corso quando ero prigioniero del genio. I mercanti, superstiziosi e cavillosi, pensarono che se mi avessero tenuto a bordo avrei portato sfortuna alla navigazione. Uno disse: "La schiaccierò con un colpo di martello!". Un altro aggiunse: "Io voglio trapassargli con una freccia il corpo!". Un terzo, infine, esclamò: "Bisogna gettarla a mare!". Non avrebbero mancato di fare ciò che dicevano, se io, collocandomi al fianco del capitano, non mi fossi prostrato ai suoi piedi, prendendolo per l'abito, in atto supplichevole e non lo avessi commosso colle mie lacrime, così che mi prese sotto la sua protezione, minacciando chi volesse farmi del male. Mi fece mille carezze ed io gli mostrai coi gesti, come mi fu possibile, la mia riconoscenza. Il vento che successe alla caLma non fu forte ma durevole, e non cambiò per cinquanta giorni. Giungemmo così, felicemente, nel porto di una belLa città popolatissima, di grandi commerci, capitale di uno stato potente, e gettammo l'ancora. La nostra nave fu subito circondata da una infinità di battelli pieni di gente che venivano a felicitarsi del ritorno, o informarsi del viaggio, o semplicemente per la curiosità di vedere una nave che veniva da lontano. Giunsero frattanto alcuni ufficiali che domandavano di parlare ai mercanti che erano a bordo da parte del sultano.

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I mercanti si presentarono loro, e uno degli ufficiali disse: "Il sultano nostro padrone ci ha incaricati di manifestarvi la sua gioia per il vostro arrivo e pregare ciascuno di voi di scrivere su questo rotolo di carta qualche riga di suo pugno. Per mostrarvi quale sia il motivo della richiesta, sappiate che egli aveva un primo visir, che alla grandissima abilità di amministrare gli affari, univa il pregio di scrivere perfettamente. Il ministro è morto da pochi giorni e il sultano ne è afflitto: e siccome aveva grande ammirazione per le cose scritte di pugno del visir, ha fatto solenne giuramento di non dare il suo posto che ad un uomo che scriva bene quanto lui. Molti hanno presentato i loro scritti, ma finora non si è trovato nessuno in tutto l'impero che sia stato giudicato degno del suo posto". Quei mercanti, credendo di scrivere così bene da poter pretendere a quella dignità, scrissero l'uno dopo l'altro quello che vollero. Quando ebbero terminato io mi alzai e tolsi il foglio dalle mani di chi lo teneva. Tutti, pensando che io volessi lacerare la carta e gettarla in mare, lanciarono un grido; ma si rassicurarono quando videro che io tenevo destramente il foglio, e che facevo segno di voler scrivere a mia volta. Ciò trasformò il loro timore in ammirazione. Nondimeno, poiché non avevano mai visto una scimmia scrivere, e non potendo persuadersi che io fossi più abile degli altri, volevano togliermi di mano il foglio, ma il capitano prese ancora le mie difese: "Lasciate che scriva", disse, "se sporca il foglio, la punirò all'istante; se al contrario scriverà bene, come spero, perché non ho mai visto in vita mia uno scimmiotto più destro e più intelligente, dichiaro di riconoscerlo per mio figlio. Io ne avevo uno, che non aveva ingegno quanto lui". Vedendo che nessuno si opponeva al mio disegno, presi la penna e non la lasciai se non quando ebbi scritto sei specie di caratteri usati dagli arabi, ed ogni saggio di carattere conteneva un distico o una quartina improvvisata in lode al sultano. La mia calligrafia non solo superava quella dei mercanti, ma oso dire che in quel paese non se n'era mai veduta una così bella. Quando ebbi terminato, gli ufficiali presero il foglio e lo portarono al sultano. Questi non fece attenzione alle altre scritture: ma osservò soltanto la mia, e gli piacque tanto che disse agli ufficiali: "Prendete il cavallo meglio bardato della mia scuderia e la veste di broccato più bella per offrirli alla persona che ha scritto questi caratteri e portatela qui". A quest'ordine del sultano gli ufficiali si misero a ridere, e il principe, irritato del loro ardire, stava per punirli, ma essi gli dissero: "Sire, supplichiamo vostra maestà di perdonarci: questa scrittura non è di un uomo, ma di una scimmia".

"Come!", esclamò il sultano. "Questi caratteri meravigliosi non sono di un uomo?" "No, sire", rispose uno degli ufficiali, "assicuriamo vostra maestà che sono d'una scimmia, che li ha scritti in nostra presenza." Il sultano trovò la cosa così sorprendente, che fu punto da grandissima curiosità di vedermi. "Fate ciò che vi ho comandato", disse, "conducete a me questa scimmia così rara." Gli ufficiali ritornarono alla nave ed esposero l'ordine al capitano il quale disse loro che il sultano era il padrone. Subito mi rivestirono di una veste di broccato ricchissima e mi portarono a terra, dove mi posero sul cavallo del sultano. Lui stesso mi aspettava nel suo palazzo con molte persone della corte, per farmi grandi onori. Ci incamminammo: il porto, le strade, le piazze pubbliche, le finestre, i terrazzi dei palazzi e delle case, tutto era pieno di una moltitudine innumerevole di gente dell'uno e dell'altro sesso e di ogni età, venuti da tutti i luoghi della città, perché s'era sparsa in un momento la notizia, e tutti erano molto curiosi di vedere la scimmia che il sultano aveva scelto come gran visir. Dopo aver dato uno spettacolo così nuovo a tutto quel popolo, il quale non cessava di gridare per mostrare la sua meraviglia, giunsi al palazzo del sultano. Trovai il principe seduto sul suo trono, in mezzo ai dignitari della corte. Gli feci tre profonde riverenze, e all'ultima mi prostrai, e baciai la terra ai suoi piedi; poi mi sedetti in una posizione da scimmia. L'assemblea non cessava d'ammirarmi, e non comprendeva come fosse possibile che una scimmia sapesse comportarsi così bene davanti al sultano; il sultano stesso era meravigliatissimo. Insomma la cerimonia della sottomissione sarebbe stata completa, se io avessi potuto aggiungere ai miei gesti il discorso. Ma le scimmie non parlano mai, e il vantaggio d'essere stato uomo non mi dava questo privilegio. Il sultano congedò i suoi cortigiani, e restò solo col capo degli eunuchi, con un piccolo schiavo molto giovane, e con me. Passò poi dalla sala di udienza nel suo appartamento, e si fece portare da mangiare. Quando fu a tavola mi fece cenno di avvicinarmi e di mangiare con lui. Per mostrargli la mia obbedienza, baciai la terra, e, alzatomi, mi misi a tavola e mangiai con molta educazione e misura. Prima che si sparecchiasse, vidi un calamaio, e feci segno che mi venisse dato; quando l'ebbi, scrissi su una pesca alcuni versi di mia invenzione, per mostrare la mia riconoscenza al sultano, e ciò accrebbe la sua meraviglia, quando li lesse. Terminato il pasto, fu portata una bevanda particolare, e il sultano me ne offrì un bicchiere. Bevvi, poi scrissi ancora altri versi, con i quali spiegavo lo stato in cui mi trovavo dopo così grandi sofferenze. Il sultano lesse ancora e disse: "Un uomo che fosse capace di fare altrettanto, sarebbe superiore ai più grandi uomini". Questo principe, fattosi portare un giuoco di scacchi, mi domandò a segni se sapessi giuocare, e se volessi fare una partita con lui. Io baciai la terra, e portandomi la mano alla testa, mostrai che ero pronto a ricevere tanto onore. Egli vinse la prima partita, ma io vinsi la seconda e la terza: e accorgendomi che ciò gli dispiaceva, per consolarlo feci un poemetto che gli presentai, in cui dicevo che due potenti eserciti, essendosi tutto il giorno con molto ardore battuti, avevano fatto la pace la sera, e avevano passato insieme la notte molto tranquillamente sul campo di battaglia. Il sultano, giudicando che ciò che facevo superava tutto ciò che aveva visto o inteso sulla destrezza e sull'ingegno delle scimmie, non volle essere il solo testimonio di tanti prodigi. Egli aveva una figlia chiamata Donna di bellezza. "Andate", disse al capo degli eunuchi che era presente, e al quale era affidata questa principessa, "andate e fate venire la vostra signora: desidero ch'ella partecipi al piacere che io prendo." Il capo degli eunuchi partì, e subito condusse la principessa.

Essa aveva il volto scoperto, ma non appena fu nella stanza, si coprì col velo, dicendo al sultano: "Sire, sono molto sorpresa che vostra maestà mi faccia comparire alla presenza di uomini". "Figlia", disse il sultano, "non vedi che siamo qui solamente l'eunuco ed io, che, entrambi abbiamo la libertà di guardarti in viso? Perché abbassi il velo, e mi accusi di averti fatto venire?" "Sire", replicò la principessa, "vostra maestà sappia che io ho ragione. Questa scimmia, quantunque ne abbia la forma, è un giovane principe, figlio d'un re. Egli è stato mutato in scimmia per incantesimo. Un genio, figlio della figlia d'Iblìs, gli ha fatto questa cattiva azione, dopo aver crudelmente tolto la vita alla principessa dell'Isola d'Ebano, figlia del re Epitimaro." Il sultano, sorpreso da questo discorso, si volse verso di me, e non parlandomi più a segni, mi domandò se era vero quanto diceva sua figlia. Poiché io non potevo parlare, mi posi la mano sulla testa, per confermare che la principessa aveva detto la verità. "Figlia", esclamò allora il sultano, "come sai che questo principe è stato trasformato in scimmia per incantesimo?" "Sire", rispose la principessa Donna di bellezza, "vostra maestà può ricordarsi che quando ero bambina, viveva con me una vecchia donna. Essa è una valentissima maga, e mi ha insegnato sessanta regole della sua scienza, per virtù delle quali potrei in un batter d'occhio trasportare la capitale nel mezzo dell'Oceano, o al di là del Caucaso. Con questa scienza riconosco tutte le persone soggette a un incantesimo. Perciò non vi meravigli se ho scoperto questo principe malgrado l'incantesimo che gli impedisce di apparire ai vostri occhi quale è realmente." "Figlia", le disse il sultano, "io non ti credevo così abile." "Sire", rispose la principessa, "ci sono cose curiose, buone a sapersi: ma mi parve sempre sconveniente vantarmene." "Poiché è così", riprese il sultano, "potresti togliere l'incantesimo al principe?" "Sì, sire", rispose lei, "posso rendergli la sua forma umana." "Fallo dunque", interruppe il sultano, "non potresti farmi un piacere maggiore, perché voglio che egli sia mio gran visir, e che ti prenda in sposa." "Sire", disse la principessa, "sono pronta ad obbedire ai vostri ordini." Essa andò nel suo appartamento, dove prese un coltello che aveva incise sulla lama delle parole ebraiche; poi fece scendere in un cortile segreto del palazzo il sultano, il capo degli eunuchi e me: e qui lasciandoci in una galleria che girava tutto intorno, avanzò nel mezzo della corte, ove disegnò un gran cerchio, e vi scrisse molte parole in caratteri egiziani. Quand'ebbe terminato, si collocò nel mezzo del cerchio, e fece degli scongiuri, e recitò dei versetti del Corano. A poco a poco l'aria si oscurò e parve che tutto il mondo si dissolvesse. Noi ci sentimmo prendere d'immenso spavento, tanto più quando vedemmo all'improvviso comparire il genio, figlio d'Iblìs, sotto la forma di un leone immensamente grande. Appena la principessa vide quel mostro, gli disse: "Perché, invece d'inchinarti innanzi a me, osi presentarti sotto questa orribile sembianza? Credi di spaventarmi?". "E tu", rispose il leone, "non temi di contravvenire al trattato fatto tra noi e confermato da un solenne giuramento, di non nuocerci l'un l'altro? Tu pagherai la pena che meriti per avermi fatto venire", e con la bocca orrendamente spalancata avanzò verso di lei per divorarla: ma lei fece un salto indietro, si strappò un capello, pronunciò due o tre parole, e il capello si trasformò in una spada affilata colla quale tagliò in due il corpo del leone.

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Le due parti del leone scomparvero, e rimase solo la testa, che si mutò in un grosso scorpione: allora la principessa si trasformò in un serpente, e ingaggiò un fiero combattimento con lo scorpione, il quale, vedendosi inferiore, prese la forma d'aquila e volò via. Ma il serpente diventò allora un'aquila nera più potente, e inseguì il nemico finché li perdemmo di vista. Poco dopo la terra si dischiuse innanzi a noi e ne uscì un gatto nero e bianco, col pelo irsuto, che miagolava orribilmente. Un gallo nero lo seguiva da vicino senza dargli posa. Il gatto si mutò in verme, e si fermò vicino ad una melagrana caduta per caso da un albero, che era piantato sulla riva d'un canale. Questo verme in un momento bucò la melagrana e vi si nascose. Allora la melagrana si gonfiò, divenne grossa quanto una zucca, e salì sul tetto della galleria, donde cadde nel cortile e si ruppe in due pezzi. Il gallo si gettò sugli acini della melagrana, e si mise ad inghiottirli l'un dopo l'altro. Quando non ne vide più, venne a noi con le ali spiegate, come per domandarci se vi fossero altri granelli. Ne restava uno sul margine del canale, del quale si accorse volgendosi, e volò subito sul posto: ma nel momento in cui stava per portarvi sopra il becco, il granello rotolò nel canale e si cambiò in un pesciolino. Il gallo, gettatosi nel canale, si mutò in luccio e inseguì il pesciolino. L'uno e l'altro rimasero per due o tre ore sott'acqua, e non sapevamo che fosse accaduto, quando udimmo grida orribili che ci fecero fremere. Poco dopo vedemmo il genio e la principessa. L'uno e l'altra lanciavano fiamme dalla bocca, fino a che cominciarono a lottare corpo a corpo. Allora le due fiamme aumentarono e mandarono un fumo denso e infuocato che si levò altissimo. Avevamo paura, e con ragione, che s'incendiasse il palazzo: ma subito sopraggiunse un motivo più forte di paura: perché il genio, essendosi staccato dalla principessa, venne fino nella galleria, dove eravamo noi, e ci soffiò contro dei globi di fuoco. Era finita per noi; ma la principessa, correndo in nostro soccorso, lo obbligò con le sue grida ad allontanarsi e a difendersi da lei. Nondimeno non poté impedire che l'eunuco fosse soffocato e consumato all'istante e che una scintilla entrasse nel mio occhio destro rendendomi cieco. Il sultano e io credemmo di morire: ma poi udimmo gridare: "Vittoria! Vittoria!" e vedemmo a un tratto la principessa sotto la sua forma umana, ed il genio, ridotto in un mucchio di cenere. Essa si avvicinò a noi, e, senza perder tempo, domandò una tazza piena d'acqua, che le venne recata da un giovane schiavo, a cui il fuoco non aveva fatto alcun male. La prese, e dopo aver pronunciate alcune parole, gettò su di me l'acqua dicendo: "Se tu sei scimmia per incantesimo, muta figura e prendi quella di uomo che avevi prima". Non appena finì di pronunciare queste parole, io tornai uomo come prima, ma cieco d un occhio. Cominciavo a ringraziare la principessa, quando essa, rivolgendosi al sultano suo padre, gli disse: "Sire, io ho riportato la vittoria sul genio, come vostra maestà ha potuto vedere: ma è una vittoria che mi costa cara; mi restano soltanto pochi momenti di vita e voi non avrete la soddisfazione di concludere il matrimonio propostomi. Ciò non sarebbe avvenuto se io mi fossi accorta dell'ultimo acino di melagrana, e l'avessi inghiottito come gli altri, quando ero mutata in gallo. Il genio vi si era rifugiato e da quello dipendeva il successo del combattimento, che sarebbe stato felice e senza pericolo per me. Tale mancanza mi obbligò a ricorrere al fuoco e a combattere con armi portentose, come ho fatto in vostra presenza.

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Ad onta del potere della sua arte formidabile e della sua esperienza, ho fatto vedere al genio che ne sapevo più di lui, l'ho vinto e l'ho ridotto in cenere. Ma io non posso sfuggire alla morte che s'avvicina!". Il monaco, parlando sempre a Zobeida, le disse: "Signora, il sultano lasciò che la principessa Donna di bellezza terminasse il racconto del suo combattimento, e, quand'ebbe finito, le disse con un tono pervaso di tremendo dolore: "Figlia, vedi in che stato è tuo padre! Ahi! Sono meravigliato di vedermi ancora in vita! L'eunuco è morto e il principe, che hai salvato dall'incantesimo, ha perduto un occhio"". Non poté dire di più, perché le lacrime, i sospiri ed i singhiozzi gli troncarono la parola. Fummo tutti commossi della sua afflizione, e sua figlia ed io piangemmo con lui. Poi, tutt'a un tratto la principessa cominciò a gridare: "Ah, brucio! brucio!". Il fuoco che la consumava s'era infatti impadronito del suo corpo, e lei non cessava di gridare: "Brucio!". La morte finalmente pose termine ai suoi insopportabili dolori. L'effetto di quel fuoco fu così straordinario da ridurla in poco tempo in cenere. Non vi dirò, signora, quanto fui commosso e turbato da quello spettacolo così funesto. Il sultano, afflitto oltre ogni dire, lanciò grida pietose, percuotendosi con forza la testa e il petto: finché, soccombendo al dolore, svenne, e mi fece temere per la sua vita. Accorsero gli eunuchi e gli ufficiali e durarono non poca fatica a farlo riprendere dalla sua debolezza. Il sultano e io non avemmo bisogno di far loro un lungo racconto di questa avventura per persuaderli del nostro dolore: i due monticelli di cenere, in cui erano stati ridotti la principessa e il genio, gliela fecero immaginare. Il sultano, potendo appena sostenersi, fu obbligato ad appoggiarsi a loro per tornare nel suo appartamento. Quando la voce di questo tragico avvenimento si sparse per il palazzo e per la città, tutti piansero la principessa Donna di bellezza, e parteciparono al dolore del sultano. Il lutto durò sette giorni, si fecero molte cerimonie, vennero gettate al vento le ceneri del genio, e si raccolsero in un'urna preziosa quelle della principessa, per essere conservate in un magnifico mausoleo, costruito nel medesimo luogo ov'erano state raccolte. Il dolore provato dal sultano per la perdita di sua figlia, gli cagionò una malattia, che lo tenne a letto per un buon mese. Non aveva ancora recuperata interamente la salute, quando mi fece chiamare e mi disse: "Principe, udite l'ordine che debbo darvi; ne va dalla nostra vita se non l'eseguite". Quando gli ebbi assicurato la mia obbedienza, aggiunse: "Io ero sempre vissuto in perfetta felicità e nessun dolore aveva mai attraversata la mia esistenza; il vostro arrivo ha fatto svanire ogni mia gioia; mia figlia è morta e io sono vivo per miracolo! Voi siete stato la causa di tutte queste sventure; partite dunque al più presto e non tornate mai più nei miei stati". Io volevo parlare, ma egli mi chiuse la bocca con parole piene di collera e fui obbligato a partire dal suo palazzo. Respinto, scacciato, abbandonato da tutti, mi feci radere la barba e le sopracciglia, e vestii l'abito di monaco. Mi posi in via piangendo, più per la morte della bella principessa, che per la mia sventura. Traversai molti paesi senza farmi conoscere, e decisi di venire a Bagdàd, con la speranza di farmi presentare al sultano e di ottenere la sua compassione col racconto di una storia così strana. Sono giunto questa sera, e mi sono imbattuto nel monaco che ha parlato prima di me; il resto lo sapete, signora. Quando il secondo monaco ebbe terminato la sua storia, Zobeida, a cui si era rivolto, gli disse: "Va bene; andate, ritiratevi dove più vi piace, ve lo permetto". Ma invece di uscire, egli supplicò la signora di fargli la grazia concessa al primo monaco, e di lasciargli ascoltare le storie degli altri, il che gli fu concesso. Allora il terzo monaco cominciò.

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